AFFARI&FINANZA

MANAGEMENT

lunedi 15 Maggio 2000

pag. 41 L'AVVOCATO : Mobbing, chi ha l'onere della prova
a cura di MARIO FEZZI

La Cassazione (sentenza n. 5491 del 2/5/00), ha posto la parola fine ad un contenzioso che durava da tempo e che vedeva come protagonista un lavoratore intensamente impegnato nell'attività sindacale. Questi lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da parte del suo datore di lavoro: la società lo aveva più volte sanzionato (talvolta anche con il licenziamento); tuttavia, tali sanzioni erano risultate per lo più illegittime o comunque erano state ridotte dalla stessa società a seguito della loro impugnazione giudiziale da parte del lavoratore. Inoltre, la società aveva in più occasioni querelato il lavoratore, anche se le querele si erano sistematicamente risolte in un nulla di fatto.
Il lavoratore lamentava che il datore di lavoro frapponeva ostacoli quotidiani allo svolgimento di ogni sua attività, lavorativa e sindacale. Di conseguenza era rimasto vittima di disturbi nervosi con somatizzazioni (nausea, vomito, dolori epigastrici) e si era rivolto al Giudice del lavoro chiedendo il risarcimento del danno biologico. Il Pretore, dopo aver disposto una consulenza tecnica, aveva ritenuto che il comportamento del datore di lavoro avesse realmente causato una lesione della salute del lavoratore, conseguentemente condannandola al risarcimento del danno biologico, nella misura di 90 milioni. La sentenza di primo grado veniva però riformata dal Giudice d'appello; di qui il giudizio in Cassazione, promosso dal lavoratore.
La Suprema Corte ha prima affermato il principio che nel caso in cui si controverta, tra lavoratore e datore di lavoro, in materia di danno biologico, la norma cui fare riferimento è l'art. 2087 c.c. (che impone al datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore) e non l'art. 2043 c.c. (che obbliga l'autore di un fatto ingiusto al risarcimento del danno). La differenza non è di poco conto: in questo modo è la società che deve discolparsi e non il lavoratore che deve provare l' esistenza del fatto. Tuttavia, la Corte ha anche ribadito che il lavoratore deve provare il nesso causale tra i comportamenti del datore di lavoro e il pregiudizio alla propria salute.
L'affermazione è in sé condivisibile e corrisponde a principi consolidati. Tuttavia, lascia perplessi l'applicazione pratica di questo principio al caso concreto, dal momento che la Suprema Corte ha ritenuto che il lavoratore non avesse provato l'esistenza del nesso causale, conseguentemente rigettando le domande del lavoratore.
Nel caso specifico, il lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un fatto eclatante (come potrebbe essere nel caso di infortunio sul lavoro, o di dequalificazione protratta nel tempo). Al contrario, il lavoratore lamentava il danno biologico in conseguenza di un'attività persecutoria, che era fatta soprattutto di piccoli dispetti quotidiani, magari in sé di poco peso, ma che - sommati - avevano avuto un effetto dirompente sul suo equilibrio psicologico. Questo è un caso tipico di quel mobbing di cui oggi si parla molto. Ebbene, se dovesse affermarsi il principio per cui, anche in casi come questi, la prova del nesso causale deve essere rigorosa, si capisce che il lavoratore ben difficilmente potrebbe trovare soddisfazione dei danni subiti, se non altro perché la prova del nesso causale, in casi in cui il danno non è stato causato da un unico comportamento eclatante ma da tanti piccoli dispetti quotidiani, è assai ardua da fornire.