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Il sogno del leader
La distinzione fra manager e capo Una serie di libri recenti analizzano le differenze tra le due figure Il rapporto con i subordinati cambia anche in relazione al grado di coinvolgimento personale
di UMBERTO GALIMBERTI
Mentre i comuni mortali hanno "progetti", i leader hanno "sogni" e "visioni". Senza sogni la storia non cammina, ma anche nei sogni occorre una misura se si vuole evitare un risveglio da incubo.
Gli antichi sovrani si difendevano dagli incubi introducendo a corte un giullare che poteva dire cose che in bocca a un filosofo sarebbero costate la testa. Ridendo e scherzando, attraverso avvertimenti che, provenendo dalla follia, dalla stupidità e quindi dall'innocuità, erano lasciati correre, il giullare diventava il guardiano della realtà, impedendo al sovrano decisioni insensate. I leader di oggi non si circondano di giullari, e neppure rimpiazzano la loro assenza con una sufficiente dose di autoironia. Al contrario si prendono molto sul serio e scambiano l'ironia con l'umorismo che mette capo a quelle battute idiote dove ciò che si esprime è solo un concentrato di senso comune, in cui l'ovvietà e la banalità trovano chiassosa conferma.
Quando il sorriso diventa una maschera e l'ottimismo una condotta, quando la comunicazione ha i toni della sicurezza propria di chi non ha paura, quando la complessità è semplificata fino all'indicazione di una sola via, quando si è persuasi che ogni branco ha bisogno di un capo e le metafore tratte dal mondo animale diventano abituali, quando lo sguardo è sempre dall'alto, proiettato nel futuro perché il presente è sotto controllo, quando la dipendenza è ciò che soprattutto si esige dagli altri, e quando negli altri si vede solo il proprio riflesso, che è poi il riflesso di una luce senz'ombra, allora siamo in presenza di un leader alla cui formazione concorrono natura e cultura in quella dosata miscela che Robert B. Dilts, autore di Leadership e visione creativa (Guerini e Associati, Milano, pagg. 264, lire 18.000) così descrive già nel sottotitolo: "Come creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere".
Robert B. Dilts, formatore e ricercatore al Pnl (Programmazione Neurolinguistica) sui sistemi di credenze e strategie di sviluppo, nonché consulente alla Fiat e alle Ferrovie dello Stato per l' apprendimento organizzativo e le abilità di comunicazione dei trainer, ritiene che la differenza tra un manager e un leader è proprio qui. Mentre il manager, scrive Dilts, è "uno capace a far fare le cose agli altri", il leader è "uno capace di convincere gli altri a fare le stesse cose" attraverso la "creazione di una visione", la "mobilitazione dell'impegno", il "riconoscimento dei bisogni", la "presentazione di valori nuovi" rispetto a quelli presenti, dipinti come obsoleti per l'autorealizzazione di ciascuno, e dannosi rispetto agli obiettivi prefissati in cui quell'autorealizzazione può trovare attuazione.
Gestendo l'impatto dei valori sull'organizzazione e sugli individui che ne fanno parte, il leader, a differenza del manager, scrive Dilts, è "un produttore di cultura perché la sua parola e il suo gesto conferiscono significati nuovi". E la novità del significato dà l'illusione del cambiamento, un'illusione tutta psichica, perché l' obiettivo resta sempre l'affermazione, il successo, il profitto, ma colorato dall'illusione dell'autorealizzazione personale di tutti i subordinati che vi concorrono.
Questo passaggio dal management alla leadership è tipico del nostro tempo e viene registrato anche da Giancarlo Trentini, professore di psicologia generale all'Università di Venezia e autore di Oltre il potere. Discorso sulla leadership (Franco Angeli, Milano, 1999, pagg. 224, lire 30.000), secondo cui la nostra non è più la stagione dei "capi con i quali l'autorità viene imposta dall' esterno (Headship)", ma dei "leader ai quali l'autorità viene conferita dai seguaci (Leadership)". Nel primo caso l'identificazione del gruppo o dell'organizzazione con il suo capo è basata sul timore, nel secondo caso sull'amore. Un amore del tutto particolare che Mirabeau - citato da Trentini - riferisce agli "schiavi volontari capaci di fare tiranni, più di quanto i tiranni non siano capaci di fare gli schiavi forzati".
A differenza del "capo", infatti il "leader" non si accontenta dell'ottima esecuzione delle prestazioni da parte dei suoi subordinati ma, come scrive Robert Dilts, dai suoi subordinati vuole anche il cuore. E qui entriamo in quella sfera affettiva di cui tutte le organizzazioni, da quelle aziendali a quelle politiche, sembrano affannosamente alla ricerca per conciliare, ma io direi mascherare, il "codice paterno" dell'efficienza del gruppo con il "codice materno" dell'amore e dell'autorealizzazione dell'individuo. Queste categorie psicodinamiche, che Giancarlo Trentini ben coniuga nel suo discorso sulla leadership, consentono di cogliere il nesso tra leadership e carisma.
Il sogno del leader, probabilmente mortificato da piccolo e inseguito da grande, si profila così alto nella scala dei valori, della difficoltà, della fedeltà e della sfida, da coinvolgere tutti i gregari che vogliono uscire dal colore opaco e grigio della quotidianità. È a questo punto, come vuole l'espressione di Gian Piero Quaglino, che leggiamo nella prefazione all'edizione italiana al libro di M.F.R. Kets De Vries, Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della leadership (Raffaello Cortina, Milano, pagg. 166, lire 29.000), che il sogno diventa un bi-sogno, un sogno a due che, quando non rasenta la "folie à deux", risponde a quella costante della natura umana per cui metà del mondo si aspetta che qualcuno dica cosa si deve fare e l'altra metà si aspetta di doverlo dire. Il leader, che appartiene a questa seconda metà, per fare del sogno un bi-sogno coinvolgente in cui tutti si ritrovano, è costretto a spingere i confini del sogno fino a quel punto in cui i fatti rasentano i desideri e la realtà la sua simulazione. Un passo ancora e il sogno si spezza, tutti aprono gli occhi, e alla delusione collettiva che sempre accompagna la fine di un sogno, quasi sempre si aggiunge la violenza distruttiva della leadership che così esprime la vendetta di un sogno tradito. Senza sogni, come dicevamo all'inizio, la storia non cammina, ma anche nei sogni occorre una misura che, o si trova da sé, o la si va a comprare da quegli "psicoanalisti delle organizzazioni" come li chiama David Gutmann che a Parigi insegna Analisi e trasformazione istituzionale all'Ecole Nationale d'Administration, e che recentemente ha rilasciato una lunga intervista a Oscar Iarussi, La trasformazione. Psicoanalisi, desiderio e management nelle organizzazioni (Edizioni Sottotraccia, via Valeria Laspro 59, Salerno, pagg. 198 lire 25.000).
Da questo libro-intervista apprendiamo che anche le organizzazioni hanno un'anima, soffrono e gioiscono, sono depresse o vitali proprio come gli individui, per cui anche un'istituzione, un partito, un' impresa possono stendersi sul lettino della psicoanalisi per produrre meglio e, naturalmente, ma qui il nesso non mi convince: "Per favorire la felicità di quanti vi lavorano".
Se ogni lavoro "per altri" è un'"alienazione", non c'è dubbio che è meglio lavorare nell'alienazione da motivati che da passivi prestatori d'opera. Ma per carità, non scambiamo la motivazione, a cui la leadership ci ha persuasi, con la retorica dei suoi sogni e delle sue visioni, con la felicità. Giampaolo Rugarli, nel suo saggio introduttivo all'intervista di Gutmann, definisce Gutmann (e quanti come lui discettano sull' organizzazione aziendale, avendo in vista non solo l'efficienza di quanti vi prendono parte, ma anche il loro cuore) un "romanziere d'impresa", perché oggi le imprese più che di esattezza hanno bisogno di inventiva, di coinvolgimento e in generale di tutte quelle risorse che le scienze umane profondevano con abbondanza e che oggi i progetti di riforma della scuola e dell'università lesinano, nel tentativo di adeguarsi all' impresa che nel frattempo ha già cambiato volto, da quando ha preso a dubitare che la ragione tecnica sia una bussola più affidabile di quanto non lo sia la fantasia per i processi di trasformazione delle organizzazioni, siano esse aziendali, istituzionali o politiche.
È questa L'illusione manageriale denunciata da Pierluigi Celli qualche anno fa (Laterza, Bari, 1997, pagg 152, lire 18.000) a proposito dei limiti culturali dei manager italiani che fanno del bilancio una religione, senza alcuna capacità di comprendere i processi di trasformazione sociale in atto che sfuggono a chi assume come unico ambito di riferimento le categorie tecniche dell' efficienza e della specializzazione.
Se questo è il perimetro al cui interno crescono i manager o addirittura i leader, allora, scrive Celli, avremo uomini dalle medie virtù che attraversano i luoghi aziendali con quel linguaggio standardizzato che abilita a comunicazioni "di transito", senza coinvolgimento ai cambiamenti di scena. Una tribù di neocinici, sempre più masterizzati, che sul mercato della professione legittimano la loro quotazione con passioni fredde e saperi standard che li rendono perfetti nella loro ovvietà. I loro pensieri e le loro parole hanno corso solo nell'ambito di una cerchia di riconoscimento data e vincolata a modalità standard di interlocuzione. Nasce così la lingua dei bilanci, dei budget, l'arida mitologia del business plan dove al pensiero è preclusa ogni via di espressione e l'identità specifica dell'azienda è interpretata dal numero e non più dalla sua storia.
Questi manager, più attenti a presidiare il curriculum che a giocare responsabilmente una parte, dicono che "l'impresa non è competente a fare altri mestieri". Il fatto è che "li fa" e non essendo preparata li distorce a suo uso e consumo con quella patina di rigore che, ripulendo il linguaggio, impoverisce il pensiero e rende sterile l'immaginazione.
Quando le cose vanno male per eccesso di autoreferenzialità, che non consente alle imprese di porsi come soggetti civili e organismi sociali, allora si punta il dito contro i poteri forti che nascono e fioriscono quando i pensieri sono deboli, quando le imprese abbondano di manager che assomigliano più ai replicanti che agli spiriti liberi, capaci di eccitare la fantasia e suscitare interesse in quel tessuto vivo e confuso che è la società magmatica, mobile e imprevedibile che risulta indecifrabile all'impresa quando questa si affida alla stupidità della ragionevolezza a tutti i costi.
E allora più "scienze umane", signori miei, e meno "scienze aziendali", più "filosofia" e meno "tecnica dell'organizzazione". Lo dico ora che l'università sta cambiando volto per adeguarsi al mercato del lavoro e dell'impresa, quando, dai libri che abbiamo visionato e dai molti altri che abbondanti escono di questi tempi sull'argomento, si chiede alla leadership e al management di essere meno "razionali" per capire di più, e meno "visionari" per non perdere il contatto con la realtà.
Ma le scienze umane e la filosofia innanzitutto, a cui oggi i nuovi ordinamenti universitari tendono a ridurre lo spazio, non tenevano proprio questa via media tra la ragione e la visione, senza appiattirsi sul puro calcolo e senza sfociare nel delirio? Non è il caso allora di incrementare i saperi che "formano" invece di sacrificarli sull'altare dei saperi che "sanno", ma non "pensano"? In fondo per incrementarsi, le aziende hanno bisogno di "pensiero", perché di "sapere" ne hanno già, e senza pensiero, anche del sapere non sanno cosa farsene.
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